Domande guida
(a) Tra melodramma, road movie e nuovo "Heimatfilm"
b) Europa precaria
Nel contesto delle cosiddette e quasi sincroniche crisi finanziarie, migratorie ed europee agli inizi del 21° secolo, molti artisti ed artiste performativi del cinema e del teatro hanno cominciato a cercare nuovi orizzonti artistici. Di fronte ad una serie di recenti sfide politiche, economiche, sociali e culturali in un'epoca globale, artisti e artiste criticano a lottano con i valori smarriti della "vecchia Europa" e si mettono alla ricerca di nuove rappresentazioni e visualizzazioni di una "nuova Europa". Essi gettano luce in particolar modo su vari momenti della precarietà: storiografie frammentarie dell'Europa, concezioni limitate dell'identità e condizioni del mercato del lavoro all'insegna dell'esclusione. Soggetti precari - migranti fuori e dentro l'Italia, non europei ed europei - sono collegati a storie incerte e spazi insicuri. Veniamo a sapere, per esempio, delle diverse difficoltà di certe minoranze (A Ciambra, Jonas Carpignano 2018) o di certi soggetti non percepiti o "tagliati fuori" dalla cornice generale europea (Pummarò, Michele Placido 1990). Tali immagini di precarietà demoliscono sia i concetti di europeismo (Ponzanesi 2012) sia il discorso eurocentrico ancora ben presente (Conrad/Randeira 2013). Inoltre, le idee fondamentali di un'Europa della solidarietà, della libertà e della comunità si rivelano illusorie. Seguendo un modello performativo come re-enactment e, seppure utopistico, perfino di pre-enactment, o rewriting, queste forme artistiche parlano a nome di immagini alternative dell'Europa.
Generalmente, l'estetica di tali immagini alternative dell'Europa "cambia colore" tra fatto e finzione nonché tra visibilità e non-visibilità. Con l'aiuto di un'estetica documentaristica (Ferraris 2012), per esempio, esse non solo ricostruiscono e rappresentano, ma mettono in questione relazioni di potere iscritte (Steyerl 2008), "ripetono", "danno un'ulteriore vita", fanno sopravvivere" (Heeg 2014), emergono come una nuova visione oppure addirittura modellano i tratti di una "nuova Europa". Inoltre, queste narrazioni performative seguono un andamento transculturale che ricorda la memoria multidirezionale di Rothberg (2009), ovvero l'attraversamento di simili narrazioni storiche in tempi e spazi diversi (p.e. diverse forme di precarietà vissuta). Così, soggetti e storie precari di diversi paesi europei e non europei sono interconnessi tra di loro sviluppando nuove relazioni di potere, ad esempio mettendo in parallelo la precarietà di diversi soggetti sociali (Butler 2004) (Into Paradiso, Paola Randi 2010). In tal modo, artisti e artiste contestano l'idea stessa di "europeo" e cercano allo stesso tempo un tertium comparationis o interfaccia contingente (Claviez 2016).
Queste narrazioni di una "nuova Europa", tuttavia, emergono regolarmente in contrapposizione agli "spettri" del passato di una "vecchia Europa" (Carlson 2003), ad esempio del colonialismo (Mediterranea, Jonas Carpignano 2015). Questo è anche il motivo per cui due tematiche - la migrazione da un lato, l'Europa e l'Unione Europea dall'altro - che fino ad oggi sembravano meramente venire discusse in contesti e spazi diversi, adesso sono sempre più interrelate fra loro. Con riferimento a diversi media e materiali documentaristici così come a concetti contemporanei e non di (neo-) realismo o documentarismo (Pummarò, Michele Placido 1990), artisti e artiste giocano con le possibilità e i limiti di riscrivere la storiografia di una "Europa iper-reale" (Chakrabarty 2000). Per mezzo della ripetizione, praticata nelle forme del re-enactment e del pre-enactment, essi creano palinsesti ambivalenti di una crescente "Europa precaria".
Quali modi cinematici e teatrali - presi singolarmente o nella loro interazione intermediale - formano e rappresentano la precarietà dei soggetti e delle loro storie? In che modo tali narrazioni transculturali della precarietà e della precarizzazione di governo (Lorey 2012; Marchart 2013) si sono innestate e integrate in una narrazione e in una storia sull'Europa? Che tipo di diverse concettualizzazioni di una "nuova Europa" emergono e come possono essere definite? E da ultimo, ma non meno importante: le narrazioni che si occupano dei problemi della precarietà e della precarizzazione in Europa sono ancora in grado di adempiere in modo convincente o di parlare in nome delle idee e degli ideali dell'Europa? Sono davvero in grado di fornire un possibile spazio per le tecniche di auto-governo in una visione democratica (Terraferma, Emanuele Crialese 2011), in altre parole delle forme di agenzia quali ad esempio le proteste (Lorey 2011)? Oppure non faranno altro che fornire un'ulteriore argomentazione in favore della dissoluzione dell'Europa (Claviez 2016)?
Tutte queste questioni saranno esaminate all'interno del progetto di ricerca Il cinema di migrazione italiano dal 1990 ed inserite nella mia qualifica post-dottorale dal titolo preliminare P/RE-ENACTING EUROPE. Soggetti e storie precari nel cinema e nel teatro contemporanei dagli inizi del 21° secolo. Nel mio lavoro prenderò in esame anche alcuni film di migrazione francofoni che interrogano la storia dell'Europa. Così, uno degli scopi principali della ricerca è quello di comparare narrazioni performative in due media diversi: il teatro e il cinema, la loro interazione intermediale così come le loro specificità estetiche nel narrare, rappresentare e interrogare la "nuova Europa".
c) Approccio intersezionale
I generi cinematografici sembrano anche organizzare i parametri intersezionali dell'identità. Per esempio, gli archetipi del melodramma sono generalmente destinati ad un pubblico femminile, mentre quelli del road movie così come quelli del cinema di regione ad un pubblico prevalentemente maschile. La migrazione e il lavoro tendono, inoltre, ad essere poco presenti in questi generi. Al contrario, è possibile osservare una differenziazione sempre maggiore tra cosiddetti rifugiati e rifugiate "buoni" e rifugiati e rifugiate "cattivi"1. L'origine etnica è diventata un indicatore della classe sociale, il che significa che il focus principale è rivolto all'integrazione dei rifugiati in una struttura economica neoliberale i cui effetti, in special modo in Italia, possono essere osservati nel precariato (cfr. per il caso italiano Contarini/Marsi 2015). Il lavoro (e il non-lavoro) possono servire da punti di riferimento per dimostrare le attribuzioni politiche, sociali e di identità culturale. Allo stesso tempo, l'origine etnica e il genere giocano un ruolo importante in termini di accesso al lavoro/non-lavoro (Brodkin 2000, Mezzadra/Neilson 2008). Il precariato e la retorica dell'ottimizzazione del sé sono particolarmente pronunciati e presenti in Italia (Contarini/Marsi 2015). Per questo motivo non è certo una sorpresa che il cinema italiano contemporaneo abbia affrontato questa tematica più frequentemente che nel caso francese o quello tedesco (cfr. Hope/D'Arcangeli/Serra 2013, 1-69; O'Healy 2016). Sulla scia di quanto sostenuto da Ava Baron e Eileen Boris, si potrebbe affermare che il lavoro, così come la classe sociale e il genere, costituiscono il corpo della persona migrante (Baron/Boris 2007, 23). La dimensione estetica della ricerca del lavoro, della disoccupazione o del lavoro precario, dell'attività e dell'inattività sono parimenti temi centrali del cinema di migrazione, che però, sfortunatamente, non sono ancora stati presi in esame ad oggi. Poiché questi temi costituiscono dei parametri chiaramente centrali di tutte le nostre domande-guida, intendiamo considerarli come un asse di ricerca principale assestante.
Gli studi intersezionali ipotizzano che i rapporti di ineguaglianza e repressione non possano essere ridotti ad una sola categoria identitaria. Piuttosto, le singole categorie appaiono intrecciate, rinforzandosi, mitigandosi e modificandosi reciprocamente. Nella ricerca intersezionale attuale, la triade consolidata di razza (etnia), classe sociale e genere è stata ampliata attraverso ulteriori categorizzazioni sociali quali ad esempio l'orientamento sessuale o religioso, la disabilità, la generazione oppure l'età (Lutz/ Herrera Vivar/Supik 2010). Un prerequisito fondamentale degli studi intersezionali - non diversamente dal caso dei Gender, Queer o Masculinity Studies - è una concezione performativa dell'identità. Sulla scia di Judith Butler, si potrebbe ipotizzare che gli attributi dell'identità non siano espressivi (di una sorta di nucleo essenziale), ma performativi (Butler 1991, 24). I film, in quanto tali, sono parte del processo di modellamento di tali identità e servono da modello suggerito di identità. I livelli della rappresentazione e della pratica dovrebbero pertanto essere pensati come strettamente interrelati tra di loro (Dietze/Hashemi/ Michaelis 2012). Di conseguenza, il secondo obiettivo del nostro progetto di ricerca consiste nella differenziazione degli attributi intersezionali delle identità migranti del cinema di migrazione, laddove le aspettative legate al genere e il rispettivo regime dello sguardo giocano un ruolo centrale (Mulvey 2000).
Ad esempio, delle prime indagini sul concetto di mascolinità nel cinema di migrazione hanno mostrato un'ampia gamma di possibilità. Un gran numero di film non riesce a sfuggire ad un'affermazione della mascolinità egemonica (ovvero l'ideale dell'uomo borghese, di successo, eterosessuale), mentre le donne sono spesso rappresentate come vittime oppure prostitute2. Altri film, quali ad esempio Cover-boy. L'ultima rivoluzione (Carmine Amoroso 2006) oppure Into Paradiso (Paola Randi 2010) si prestano all'analisi delle questioni attinenti alla complicità (Connell 1999, 100) possa essere applicato (o sovvertito) in materia di amicizie transnazionali tra uomini. Forme alternative alla mascolinità egemonica e alla femminilità pronunciata sono presenti in film quali Occidente (Corso Salani 1999) oppure Brucio nel vento (Silvio Soldini 2003)3. Nonostante prospettive queer come in Good Morning Aman (Claudio Noce 2009) oppure Corazones de mujer (Pablo Benedetti/Davide Sordella 2008) rimangano delle eccezioni nel panorama del cinema di migrazione italiano, esse mostrano comunque come collegare la diversità culturale con le condizioni di lavoro e la mascolinità egemonica in particolare, possa, almeno dal punto di vista teorico, contestare quest'ultima. Ciò che in ultima analisi è centrale in questo contesto è un'analisi differenziata dei personaggi (ovvero delle identità rappresentate), la quale, a sua volta, ci conduce al terzo punto focale della nostra ricerca. Partendo dalla premessa che il potere egemonico produce e riproduce la differenza come una strategia chiave (creando una spaccatura sociale e spaziale tra "noi" e "gli altri"; Soja 1996), la presente domanda-guida mira alla localizzazione spaziale delle persone migranti nel cinema italiano.
d) Memoria collettiva - American Dream
e) Frontiere, confini e limiti spaziali ed etnici
Il pluricitato detto dello scrittore francese Pierre Vilar secondo cui la storia del mondo può essere vista al meglio dai suoi margini1, è indubbiamente praticabile nell'ambito del cinema transculturale europeo, in particolar modo a partire dagli anni '90 (Vilar 1985, Mezzadra/Neilson 2008). Dal momento che i confini esterni dell'Italia sono particolarmente lunghi e allo stesso tempo si trovano al "margine" dell'Europa, essi rivestono un ruolo importante nel cinema di migrazione. Tali confini, tuttavia, sono qualcosa di più che dei semplici confini geografici. In riferimento al lavoro accademico sul cinema italiano, la tematica dei confini rappresenta un fenomeno relativamente nuovo in Italia e proprio per questo tanto più importante. Già nel suo libro Italian Film del 2000, la ricercatrice americana in "Studi Italiani" Marcia Landy ha indicato come tale fenomeno costituisca una differenza rispetto ad altre nazioni (cinematografiche europee), ad esempio quella tedesca o quella francese. Secondo Landy, ad ogni modo, le raffigurazioni della "dissoluzione dei confini" sono (a parte gli aspetti generazionali e di genere) diretti principalmente a problemi nazionali, ovvero c'è una forte attenzione su questioni dell'identità di sé (Landy 2000, 377).
Durante gli ultimi 15 anni, comunque, sempre più registi e registe hanno confrontato piuttosto intensamente l'Italia con il fatto che il paese si trovi in una fase di sconvolgimento socio-culturale e che i suoi confini e la sua identità (emigratoria) siano diventati estremamente permeabili. Soprattutto registi come Gianni Amelio e Andrea Segre, che si sono confrontati a più riprese con il tema della migrazione a partire dagli anni '90, hanno provocato un vero e proprio Writing o Filming back - oltre a catturare visualmente la situazione geo-politica italiana. Entrambi hanno problematizzato la narrazione dell'Italia come paese di emigrazione e così hanno contribuito alla discussione critica delle sue storie di migrazione e del colonialismo nel Mediterraneo (e ancora più alla revisione delle rappresentazioni dell'Italia come "Belpaese"). Allo stesso modo poi mettono alla prova le costruzioni di identità collettiva che sono diventate delle verità scontate nell'Italia del dopoguerra. Film come il road movie di Gianni Amelio Lamerica sono ambientati nell'"ex-colonia" italiana dell'Albania, o altri come Io sono lì di Andrea Segre, ambientato a Venezia, in contrasto con il discorso sull'italianità, assume i confini non come istituzioni fermamente definite, quanto piuttosto nel senso loro dato da Certeau quali spazi transitori che si rivelano essere temporanei e soggetti a continue ridefinizioni (Certeau 1988, 97)2.
In questo contesto l'obiettivo è di analizzare i film di migrazione che selezionano il(/i) confine (-i) del paese come tema centrale e si iscrivono nella tradizione di un cinema mediterraneo, i cui paradigmi sono i film neorealisti sull'"isola" siciliana e i suoi pescatori di Luchino Visconti (La terra trema, 1948) e di Roberto Rossellini (Stromboli, 1949), ma anche il cinema di città di confine come Venezia (ad esempio Luchino Visconti) e Napoli (Vittorio De Sica, Roberto Rossellini). In tal modo il progetto affronta il problema dell'appropriazione e della riscrittura di queste tradizioni da parte di registi e registe come Vincenzo Marra o Paola Randi. Al fine di prendere in maggior considerazione anche formati meno commerciali, verrà usato in questa sede un corpus di film ibridi e documentari come una sorta di contrasto a questi film. Registi quali Vittorio De Seta, Kiff Kosoff e Andrea Segre, che hanno essi stessi attraversato i confini del Mediterraneo e che hanno trattato i confini dell'Europa (nei termini di un'antropologia culturale) oppure invertito la prospettiva, rispettivamente3.
Concludendo, è necessario verificare in che misura le produzioni contemporanee confermino la tesi di Landy secondo cui i problemi dei confini etnici continuano ad essere in minoranza rispetto ad altri aspetti del confine. Allo stesso tempo, è altresì fondamentale analizzare il modo in cui le narrazioni dei confini siano localizzate nei film, ovvero in che misura le tradizioni del cinema italiano vengano riprese e continuate con riferimento speciale a simili clichés del cinema mediterraneo quali la nostalgia e le tradizioni. Infine, è importante esaminare anche se modelli stereotipati vengano sovvertiti per mezzo delle strategie narrative (Millet 2012). In altre parole: fino a che punto questi film, nel loro sforzo di decostruire confini geografici ed etnici (per dirla con le parole di Pierre Vilar), possono essere considerati come una forma di storiografia (filmica) alternativa e transnazionale dell'italianità? L'attenzione qui deve essere rivolta soprattutto a produzioni che assumono l'Italia come una nazione che confina con il Mediterraneo, in analogia alla discussione dei mass media intorno al topos di Lampedusa. Il nostro corpus sarà pertanto limitato a film che affrontano la migrazione nella regione del Mediterraneo4.